21 Giugno 2020
27esimaora.corriere.it

Primum vivere anche nella crisi

di Lia Cigarini e Silvia Motta del Gruppo Lavoro della Libreria delle donne di Milano


Il Corriere della sera ha pubblicato qualche tempo fa (28 maggio 2020) un articolo di Maurizio Ferrera e Barbara Stefanelli intitolato Perché senza donne non c’è ripresa? Lo abbiamo letto e discusso, noi della Libreria delle donne di Milano, e precisamente il Gruppo che si interessa del lavoro, gruppo che ha anche pubblicato un Sottosopra intitolato Immagina che il lavoro (Milano 2009).

Tra i due testi c’è un punto di rispondenza, cioè che la separazione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, simbolicamente e socialmente costruita dal patriarcato, permane nelle teste e nel linguaggio. E quindi è necessario secondo Ferrera e Stefanelli, trovare «forme di confronto aperto tra persone che si interrogano sui propri preconcetti e progettano soluzioni, facendo scelte condivise e per questo più coraggiose». La chiamano, non a caso, «maieutica di genere» che significa da vocabolario «arte della levatrice, cioè metodo socratico». Noi la chiamiamo autocoscienza, pratica politica che ha innervato il movimento delle donne durante gli ultimi cinquant’anni, fino al Me-Too, e l’ha reso vivo e vincente.

L’irruzione del coronavirus ha evidenziato che la separazione tra lavoro produttivo, da una parte, e lavoro riproduttivo/di cura, dall’altra, non rende conto dell’intreccio che c’è tra questi due mondi, della loro porosità, e ci ha fatto vedere che le donne svolgono tra i due un ruolo di perno fondamentale. Chi ha fatto un figlio o curato un genitore anziano, sa benissimo quanta energia, quanto tempo, quanto sapere e capacità di relazione e mediazione si debba mettere in campo perché i servizi diventino concretamente fruibili alle persone in carne ed ossa. È un residuo del patriarcato quello che ci fa parlare di lavoro femminile di cura e di lavoro produttivo (perlopiù maschile): sono semplificazioni.

Cambiamo piuttosto l’idea, la definizione stessa di lavoro. È lavoro tutto quello necessario per vivere, abbiamo scritto in quel testo del 2009, oggi divenuto più attuale.

L’esperienza di lavoro che intreccia vita ed economia, lavoro retribuito o non, esperienza che le donne conoscono bene, noi non la vediamo come segno di minorità o svantaggio, ma come la fonte di un punto di vista, di una forza, di un sapere femminile che noi riteniamo possa essere un potente motore di cambiamento non solo del lavoro delle donne ma del lavoro tout-court. E da lì un motore di cambiamento del modello di sviluppo della società in cui viviamo.

Di questo lavoro, complesso ed essenziale, che connette, dà senso e forma alla vita quotidiana di adulti e bambini, generi e generazioni, gli uomini, nella loro pretesa indipendenza, sono meno consapevoli benché assai bisognosi. Nel mix vita/lavoro, al contrario, noi vediamo un segnale forte e suggestivo che intreccia libertà e costrizione, dipendenze e relazioni. E che, a volerci mettere mano, sarebbe ricco di pensieri stimolanti per il futuro di tutti.

Durante l’epidemia si è manifestato un desiderio diffuso di cambiamento, si tratta ora di renderlo parlante. Infatti, nei mesi del lockdown si è molto discusso sul ‘dopo’, se ne usciremo cambiati in meglio o in peggio o se le cose ritorneranno come prima. Prevaleva e in parte prevale anche ora la prospettiva che ci sarà più attenzione all’ambiente, come anche alle disuguaglianze. Sono preoccupazioni buone e necessarie, ma c’è il rischio che il primato dell’economia e del potere finanziario riprendano il sopravvento. Ci vuole uno spostamento in più, c’è qualcosa di più elementare, accettare il fatto che lavorare è nella necessità del vivere. Primum vivere anche nella crisi.

Chiediamo: si può pensare che anche gli uomini, istruiti da uno scenario mai vissuto prima con l’allontanamento dal lavoro sociale e la reclusione in casa, siano stati toccati da un’esperienza che ha fatto capire di più il nesso tra economia e vita (la dipendenza nella malattia, il rapporto con i bambini, la vicinanza con la morte)? Si può pensare che avanzi una presa di coscienza in grado di riaprire i giochi tra uomini e donne?

Ci dà una risposta il sociologo inglese Colin Crouch che scrive «oggi esistono i margini per una politica che interpreti gli interessi di tutti, compresi quelli degli uomini, in una prospettiva femminile, non anti-maschile, che abbracci al suo interno l’identica esigenza degli uomini, seppure meno facile da esprimere, di condividere una vita equilibrata… un approccio meno frammentato alla vita» (Colin Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, Ed. Laterza 2014).


(27esimaora.corriere.it, 21 giugno 2020)

Print Friendly, PDF & Email