17 Dicembre 2018
#VD3

La parola giusta ha in sé il potere della realtà – Vita Cosentino

Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, La parola giusta ha in sè il potere della realtà, 2 dicembre 2018

 

di Vita Cosentino

 

Questo incontro ha un titolo impegnativo, che ci introduce a vedere, attraverso le parole di Mary Daly, tutta la politicità e la forza trasformativa che la lingua porta con sé. A tema oggi il linguaggio come questione politica: il nostro e quello dei mass-media. Come parliamo noi delle donne e della politica delle donne e come ne parlano i mass-media. Le due cose sono intrecciate.

Su questo tema abbiamo trovato vicinanze:

– con le amiche di Non una di meno, che nel loro Piano alla sezione Libere di narrarci affrontano direttamente la questione delle narrazioni tossiche e sessiste dei mass-media «che riproducono una cultura di violenza diffusa». Silvia e Carlotta operano qui a Milano in questa rete, che, come il #MeToo, ha ampiezza internazionale: dall’Argentina, infatti, si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Dell’agire politico delle femministe di Non una di meno io apprezzo la tempestività, cioè la capacità di esserci appena capita qualcosa. Cito l’ultimo episodio: pochi giorni fa (22-26 nov.) a Milano si sono presentate in consiglio Comunale vestite da ancelle e con la loro presenza hanno ottenuto da parte del consigliere di Forza Italia il ritiro della mozione cosiddetta “pro-vita”. Una vittoria netta. Apprezzo anche il loro desiderio di cambiare in profondità la società in cui viviamo, con iniziative che coinvolgono ogni campo: come si sa hanno dichiarato lo “Stato di agitazione permanente”.

– con le giornaliste dell’associazione GiULiA (acronimo per Giornaliste Unite Libere Autonome) che raccoglie più di mille giornaliste italiane, di cui nomino due pubblicazioni sul linguaggio: Donne, grammatica e media, sull’uso dei femminili nella lingua italiana e Stop violenza: le parole per dirlo. Giovanna Pezzuoli fa parte del direttivo e come giornalista e scrittrice da anni si batte per un’altra narrazione della realtà, soprattutto scrivendo per la 27esima ora.

 

In Via Dogana abbiamo seguito da vicino la rivoluzione del #Metoo, il nuovo credito dato a livello internazionale alla parola femminile e abbiamo già posto l’attenzione al linguaggio, concentrandoci sul Parlare bene delle donne dopo secolo e secoli d’iniqua maldicenza, per dirlo con le parole di Luisa Muraro in Dire Dio nella lingua materna. Di recente è uscito il Sottosopra in cui Lia Cigarini sostiene che «nel caso del #Metoo è stata finalmente vinta la battaglia della narrazione femminile su quella maschile, battaglia che può fare da spartiacque nella storia del femminismo».

 

Nell’invito abbiamo scritto che sempre più donne si accorgono che siamo immerse in una cultura misogina e che le parole di Mary Daly ci invitano a trovare di volta in volta le parole giuste capaci di far deperire le narrazioni tossiche per le donne. Io vorrei a commento portare due casi recenti in cui questo è avvenuto.

Il primo riguarda una giudice civile cinquantenne, con vent’anni di esperienza alle spalle: Paola di Nicola. Ha appena pubblicato un nuovo libro che fin dal titolo, La mia parola contro la sua, ci dice che il conflitto tra i sessi si è installato nello spazio pubblico e riguarda la parola e quale parola viene creduta.

Quasi all’inizio racconta che, volendo preparare per un convegno una relazione sulle parole usate nelle sentenze di imputati per reati di violenza contro le donne, è andata a rileggersene alcune sue di anni prima. E con costernazione si è accorta che lei stessa aveva scritto parole che esprimevano una forma di colpevolizzazione della donna che aveva denunciato il marito violento. Lo schema della narrazione misogina corrente, come ben spiega chiamandoli pregiudizi contro le donne, è proprio questo: colpevolizzazione della donna, per esempio con frasi come «se l’è cercata» – che ora torna anche per le volontarie rapite – oppure come «perché hai denunciato tardi?»; e giustificazione dell’uomo, per esempio definendo “raptus” quello che invece dagli atti processuali risulta essere un omicidio premeditato studiato fin nei dettagli.

Da quel momento Paola Di Nicola comincia il suo viaggio di riflessione, di ascolto delle donne, di analisi del linguaggio dei giornali e di tanto altro ancora. Il suo scopo è «disarticolare discorsi spesso unanimemente condivisi» e cambiare le parole con cui si scrivono le sentenze, perché è consapevole che quelle parole hanno un significato che va al di là del singolo caso, e «che conferma o smantella l’ordine simbolico di valori e di rapporti di forza.» Una sua sentenza è comparsa sui giornali di tutto il mondo: quella legata al processo delle cosiddette “baby-squillo”, definizione che la giudice rifiuta perché riveste con parole glamour un atto orrendo di abuso di uomini adulti su quasi bambine. Condanna l’imputato a due anni di carcere e a un risarcimento in libri e film sul pensiero delle donne per un valore di ventimila euro. Paola Di Nicola non vuole certo un «inammissibile indottrinamento» ma la restituzione alla quasi bambina della sua dignità umana di donna «sentendosi a pieno titolo parte di quella ricchezza culturale che le sue madri intellettuali le hanno regalato». A partire da questa sentenza Cinzia Spanò sta allestendo uno spettacolo teatrale dal titolo Tutto quello che volevo.

Di Paola Di Nicola mi preme mettere in evidenza che tutto comincia con la sua presa di coscienza (è questo il passo che non si può saltare) che la porta a trovare le parole giuste che determinano un suo agire politico conseguente.

 

Secondo caso: le tante voci femminili che hanno smascherato il disegno di legge Pillon sull’affido condiviso. Non sto a commentarlo ché è già molto conosciuto. Voglio solo metterne in evidenza l’aspetto linguistico: le donne non si sono fatte ingannare da “belle parole” e hanno visto la misoginia che celavano. Lo dice esplicitamente Nadia Somma (blog il Fatto quotidiano 12 sett. 2018) in uno dei primi commenti: «Dietro il bell’aspetto della bigenitorialità si cela un’anima oscura e vendicativa». Sul ddl Pillon, ricordo una delle prime trasmissioni di Radio Popolare. Il conduttore, maschio, era quasi imbarazzato perché alle sue orecchie quelle parole suonavano eque, però quando hanno parlato le avvocate che aveva invitato in trasmissione, ha subito creduto alle loro parole e si è fidato. E ben si sa tutto quello che è seguito.

La questione che voglio porre con questi due casi così differenti tra di loro è che trovare le parole giuste si configura come una pratica e come tale sta in un determinato contesto. Non c’è da affezionarsi alle parole – anche a quelle che ci sono più care – ma mettersi in una postura di apertura e decidere situazione per situazione, caso per caso. In ballo c’è una questione di giustizia nei confronti delle donne.

 

(Via Dogana 3, 17 dicembre 2018)

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