Intervento introduttivo alla discussione, dopo la proiezione alla libreria delle donne di Milano del film di Alina Marazzi “Tutto parla di te”.
di Sara Gandini
“Ogni madre conosce quel sentimento in bilico tra l’amore e il rifiuto per il proprio bambino. Una tensione dolorosa da vivere e difficile da confessare, perché va contro il senso comune di quel legame primordiale. Ci si aspetta che si tratti di amore incondizionato”, ha detto Alina Marazzi in una intervista. Tutto parla di te racconta di come ci si possa sentire sole e inadeguate. E di quanto faccia male scoprire che la maternità non è solo idillio.
«Torni a casa con il neonato e la festa non c’è. Facciamo fatica a confessare queste zone d’ombra a noi stessi e di conseguenza alla comunità. La tua vita cambia radicalmente, le tue giornate sono regolate dal bambino, provi una felicità sconosciuta, ma senti anche le rinunce, il sacrificio della tua libertà. La maternità è amore e rifiuto, è magnifica, orribile, spaventosa, fantastica», dice Alina Marazzi.
Alina ci ha dato l’occasione di riflettere sulla maternità a partire dal tormento e dalla paura di vivere fino in fondo il lutto per l’immagine di sé senza figli, e a partire dalla fatica del primo anno di vita della bambina o del bambino, che comporta senso di isolamento ma anche pienezza di un rapporto totalizzante, che mette sullo sfondo tutte le altre relazioni. Riflettere sulla maternità in fedeltà al sentimento d’inadeguatezza che coesiste con la scoperta di sé, di un’altra parte di sé, quella che possiamo ritrovare in territori emotivi raramente esplorati, nel viaggio ai limiti dell’amore, dell’allattamento, della solitudine, della notte.
Come scrive Laura Colombo su Leggendaria nell’articolo intitolato: “Madri senza tempo? Dialogo tra generazioni”, ci sono esperienze che hanno un senso più grande della singola individualità, e la maternità è una di queste.
Per questo vogliamo ragionarci inserendolo in un quadro storico che è segnato dall’avvento della libertà femminile. Prima del femminismo le donne, per essere tali, dovevano diventare madri, e quelle che non lo desideravano si sentivano diverse e forse non normali. Oggi non è più così, la presenza delle donne in tutti gli ambiti della vita sociale è in crescita, e la maternità è una delle possibilità nella vita di una donna (e può non esserlo). Nello scenario rivoluzionato dal femminismo la maternità da obbligo si è fatta scelta. Le donne sempre di più scelgono di fare figli e allo stesso tempo di non rinunciare al lavoro, a professioni che diano soddisfazione, a fare politica, a stare nel mondo con senso di responsabilità.
Dall’altra parte però ora le donne si ritrovano con l’imperativo sociale dell’emancipazione, dell’indipendenza economica, dell’efficienza sul lavoro. Il senso d’impotenza diviene il contraltare dell’efficientismo della madre/professionista/moglie/amante perfetta che allatta fino all’anno di vita, come richiede l’OMS, mentre lavora al PC da casa perché dopo i tre mesi ci si aspetta che sia produttiva e puntale sul lavoro come sempre. Eppure Marazzi ci ricorda che l’infanticidio, la depressione post parto, il disagio delle madri c’è ora come esisteva ai tempi delle nostre nonne.
Il film di Alina Marazzi, come anche il film di un’altra regista, “Quando la notte” della Comencini, coraggiosamente rappresenta le contraddizioni che le donne vivono, la zona d’ombra che non riguarda però solamente la conciliazione tra la maternità e il lavoro o la mancanza di servizi – realtà peraltro che molte donne patiscono. È qualcosa di più profondo.
Ricordo quando mia figlia aveva un mese. Mi sentivo come un automa: da un lato c’era quello che realmente provavo e dall’altro quello che dovevo fare. Ricordo i pensieri di morte dei primi mesi. Sono comparsi quando mi sono resa conto della responsabilità che avevo nei confronti di un altro essere umano, che dipendeva da me per la sua vita, e che sarebbe stata mia figlia per tutta la vita. Avevo raccontato l’angoscia dei primi mesi dalla nascita di mia figlia anche sul sito della libreria e tantissime donne avevano scritto al sito raccontando esperienze simili. Si sentiva che c’era una grande esigenza da parte delle donne di mettere in parole quello che vivevano. Il discorso esterno, sociale, infatti non riesce a rappresentare queste contraddizioni e non c’è luogo collettivo dove affrontare, capire, pensare al senso di queste profonde ambivalenze.
Alina Marazzi con il suo film aiuta a far entrare nell’immaginario comune l’ambivalenza dei sentimenti verso un figlio, che per la società sono e devono rimanere indicibili, sono considerati anormalità, e di cui la società non vuole sentirsi responsabile. Si tratta di una condizione che in quest’epoca sfiora la politica, che la relega ad una questione organizzativa (più asili nido), che arriva alla medicina quando sfocia nella patologia (depressione post partum) o finisce in una questione di cronaca quando diventa infanticidio o suicidio.
Laura Colombo, nel suo intervento sul supplemento di Leggendaria, raccontava di una grande solitudine simbolica delle donne nell’esperienza della maternità. Solitudine non solo come isolamento, ma soprattutto come mancanza di condivisione del negativo e del positivo che si vive.
Per far fronte a questo ci vuole anche narrazione, per creare significati fedeli all’esperienza e pensieri condivisi. Il difetto simbolico di senso genera infatti un infinito bisogno di rassicurazione, anche nella forma di consigli pratici.
Ma per iniziare a parlare davvero di maternità, assumendo la questione collettivamente, non solo affrontando il disagio individualmente, sono necessarie pratiche adeguate, che possiamo ereditare dal femminismo radicale. Facciamo riferimento al femminismo che fa leva sulla presa di coscienza soggettiva, che nasce e si sviluppa nella dimensione della singolarità e della soggettività, non sul piano della rivendicazione dei diritti e della parità con l’uomo. Entrambi gli approcci hanno lo stesso intento: rendere più vivibile il mondo che viviamo, ma si muovono con diverse pratiche.
Pensiamo ad esempio alla legge sui congedi parentali del 2000, che prevede permessi per la cura dei figli anche per il padre. Gli uomini, per lo più, non colgono questa occasione, perché accade solo quando riescono a fare quella mossa interiore di libertà che permette quella consapevolezza che la legge non potrà mai dare.
Il problema sociale esiste, ma riguarda in grande misura la sfera interiore, il senso che ognuno può scegliere di dare al fatto di essere padre o madre, uomo o donna, e solo una messa in discussione profonda può permettere un cambio di rotta.
Secondo Alina Marazzi, serve un nuovo patto tra donne e uomini, un atto di generosità per rifondare la società, dice in un’intervista. Nel suo film c’è solo una figura maschile più approfondita, Valerio, che non è il padre del bambino. E Alina dice che si tratta di una figura importante perché lei desiderava ci fosse almeno una voce maschile positiva, anche se il film nasceva per mostrare prima di tutto l’importanza che hanno le relazioni tra donna e donna, nei momenti di estrema fragilità legati alla maternità.
Però, dice Alina: “sono convinta che quel mondo fatto di attenzione e solidarietà non sia appannaggio solo delle donne. Ci sono anche uomini attenti, che guardano, osservano, ascoltano e sono vicini alla donna in quei momenti. Ma volevo che fosse chiaro che per me questo ruolo non deve per forza appartenere al padre del bambino o a un amante.”
Alina quindi accenna alla necessità di una ridefinizione del ruolo maschile all’interno della società contemporanea. Per questo mi è parso interessante che per la realizzazione del film abbia lavorato collaborando col padre di suo figlio e con il bambino a fianco. “Nella sceneggiatura c’è lo sguardo fondamentale del papà”, dice Alina.
Ma prima di tutto nel film Alina nomina l’importanza di relazioni femminili su cui poter contare, la relazione tra Emma e la sua amica più grande, Pauline sono al centro del film. Si tratta di una relazione importante non solo per il sostegno concreto, ma perché aiuta ad orientarsi, a trovare un senso a ciò che sta capitando, a mettere in parole, a creare simbolico e a fare entrare mondo nelle relazione madre-figlio.
È il desiderio di questa relazione che spinge molte donne a creare luoghi propri, come quelli di cui si parla nel film, commenta Sara Filippelli nella sua bella recensione a «Tutto parla di te», pubblicata sul sito della società delle letterate. Non è un caso, scrive Sara, che la sua collaboratrice principale per questo film sia l’amica di sempre Ilaria Fraioli, con la quale ha condiviso anche il montaggio doloroso e liberatorio di Un’ora sola ti vorrei.
Alina ci racconta della maternità come presa in cura dell’altro anche al di fuori della dinamica della coppia, della famiglia. In Italia il concetto di famiglia è ancora molto forte ma bisognerebbe cercare di aprire le famiglie, dice Alina in un’intervista, fare entrare nella famiglia anche altre figure.
Va detto che ci sono alcune invenzioni che rispondono a questo bisogno e a volte danno possibilità di uno scambio profondo. Prima tra tutte la rete, con le comunità online, i forum, i blog, i social network, luoghi che le donne creano e in cui sono particolarmente attive. Come dice anche Alina “l’attività molto forte di mommy-blogging è una forma che si rifà all’utilizzo del diario e infatti una primissima fase del lavoro al film era nata proprio con un blog per raccogliere storie dal web. Da qui nasce anche il sito www.tuttoparladivoi.com che raccoglie le testimonianze in forma scritta, fotografica o anche di twitter sull’esperienza della genitorialità”.
Sono contesti di condivisione che si sviluppano prevalentemente su Internet ma che poi hanno bisogno di scambi anche in presenza. Per far fronte a queste difficoltà, per creare significati fedeli all’esperienza e pensieri condivisi ci vuole narrazione, come dicevamo. Perchè lo straniamento dell’esperienza della maternità, il suo fascino e il suo orrore, è dato da qualcosa che si intuisce appena: un senso di trascendenza che però è radicato nel corpo femminile, come scriveva Laura su Leggendaria. «All’inizio della vita non si esiste separati dal corpo della madre. Dopo, quel corpo è un segno dell’indistinto, del confusivo, della minaccia per la propria identità che sta nel profondo di ciascuna. Contemporaneamente il corpo della madre è una zona limite, fluida e di passaggio, che porta alla differenziazione. Ma il legame totalizzante dei primi mesi è potente, rinforzato dall’accudimento totale, solo poco a poco e faticosamente può sciogliersi, perché c’è in gioco anche un aspetto raramente affrontato, la dimensione erotica tra madre e figlia/o, il piacere dato dal contatto fisico, dall’intimità che si crea durante l’allattamento, una situazione di piacere che crea un legame forte e appagante, con tutti i rischi che l’intensità della simbiosi comporta.»
Emma nel film ad un certo punto dice: “Ho capito che posso essere me stessa anche con lui al mio fianco”. Ecco il punto in cui la dipendenza diventa relazione.
Ad esempio io ho vissuto la maternità come un’occasione rara di consapevolezza. Proprio grazie ad un incontro così potente come quello con mia figlia, che rappresenta l’Altro da me, che inizialmente stava in me, ho dovuto fare i conti con aspetti che sottovalutavo, da cui scappavo. Mi ha costretto a riflettere sul senso delle mie relazioni, sulla dipendenza, sul vincolo, sulle relazioni per la vita… Per questo dico spesso che mia figlia mi ha messo al mondo.
Vorrei chiudere questo intervento chiedendo ad Alina come è stato accolto il suo film, se è soddisfatta. Leggendo alcune recensioni ho la sensazione che non deve essere stato facile trovare il coraggio di affrontare queste tematiche che spesso gli uomini trovano imbarazzanti, poco significative o pre-politiche. Le donne lo hanno accolto diversamente rispetto agli uomini?