7 Settembre 2014

L’autostima di genere: come la principessa malvestita

 

di Luisa Muraro

 

Che difficile parlare della differenza femminile, c’è sempre il rischio di cadere negli stereotipi e di supportare culture ostili alle donne.

Nonostante tutto, se ne parla ed è bene, perché gli uomini fanno fatica ad ammettere la differenza maschile e insistono a presentarsi come modello unico di umanità, anche nella trasformazione dell’esistente. Succede di conseguenza che le donne siano misurate e si misurino loro stesse con un metro non fedele a loro e per giunta difettoso di suo. Oggi questo rischio è diventato più grande del primo, tanto che alcune si sono dette (semplifico): siamo inadeguate? meglio essere inadeguate che brutte copie degli uomini.

Nel giugno scorso Internazionale ha pubblicato un lungo articolo di provenienza Usa (The Atlantic) sulla scarsa fiducia che le donne hanno in sé stesse per cui, pur essendo tanto brave, restano indietro nelle carriere. L’articolo era “americano” nel senso peggiore, tanto nell’analisi del problema quanto nelle ricette, e ci sono state proteste di lettrici, in Italia come altrove, America compresa. Nessuna però ha negato che un problema esista e la discussione è continuata. E ha ritrovato spontaneamente i suoi termini femministi originari: siamo combattute tra voglia di vincere e paura di fallire. Trovo questa ripresa sorprendente e positiva, spiegherò il perché.

“La paura di fallire che blocca molti talenti femminili su posizioni di retroguardia va affrontata a viso aperto”, ha affermato recentemente Jessica Bacal. Viene citata in un articolo firmato da Maria Luisa Agnese e Daniela Monti (Corriere della sera, 26.8.2014) che già nel lungo titolo è tutto un programma: Il coraggio di rispondere “non so”. L’insicurezza (buona) delle donne. Siamo portate a dubitare, anche di noi stesse. E se fosse una possibile risorsa? Tutto sul filo del rasoio.

Voglia di vincere, paura di fallire, diceva il Sottosopra verde intitolato Più donne che uomini, che risale al 1983, un testo di grande risonanza anche all’estero, soprattutto in Germania. Non finisce qui. Anche la risposta che dava il Sottosopra risuona, con parole diverse, nella risposta di oggi.

Nell’articolo del Corriere Maria Luisa e Daniela presentano il caso esemplare di Teresa B., laureata della Bocconi che, nel suo primo stage di lavoro a Londra, ritrova una nuova fiducia in sé facendo riferimento a donne che si sono affermate grazie alle loro qualità. E così lo commentano: “Ridurre tutto all’individuo, alle insicurezze che ciascuna si porta dentro, è dunque un errore di prospettiva. Perché, come dimostra il racconto di Teresa, l’autostima personale può di più se poggia su un’autostima di genere, come un nano sulle spalle di un gigante”.

Il Sottosopra fu scritto che la ventiseienne Teresa B. non era ancora nata e le autrici dell’articolo probabilmente erano bambine, ma nel Sottosopra la loro scoperta si trova esattamente anticipata e poi articolata nella proposta di un nuovo tipo di relazione tra donne, quella di fare affidamento, presentata come una pratica per uscire dalla stretta fra voglia di vincere e paura di fallire, e andare nel mondo senza fare torto alle proprie qualità.

La coincidenza è evidente così com’è evidente che le parole usate sono molto diverse tra loro. Da dove venga tanta diversità, può sembrare una questione secondaria ma attenzione che è collegata a una questione più grande, quella della frequente cancellazione (o meglio: obliterazione, che vuol dire: rendere illeggibile) delle idee giuste nel corso della storia, un fenomeno che colpisce specialmente la storia politica delle donne. (Non sono la prima a interrogarmi in proposito, lo ha fatto ben prima di me Simone Weil per la civiltà occitanica.)

Le formule, “pratica di relazione e di affidamento”, da una parte, “autostima di genere” dall’altra, rispecchiano una difformità di percorsi mentali e politici che il cambio generazionale non basta da solo a spiegare. Tanto più che si tratta di idee che si formano in circostanze e contesti simili, concepite da persone che parlano la stessa lingua. Tra il linguaggio del 1983 e quello del 2014 non c’è un rapporto di sviluppo del tipo che può accompagnarsi al passaggio di un’eredità, pacifico o conflittuale che sia. A me pare una discontinuità allo stato puro, che risalta tanto più che le parole tendono a coincidere nella sostanza di quello che vogliono dire.

Nascono delle domande. Che cosa è capitato tra oggi e i primi anni Ottanta del secolo scorso che spieghi la discontinuità?

Rispondo con un’ipotesi dettata dalla storia più nota e risaputa: è capitata la caduta del muro di Berlino (1989) con tutto quello che ha voluto dire, in primis il trionfo dell’economia capitalistica di mercato e l’egemonia mondiale degli Usa, che diventano l’orizzonte ideologico globale, l’unico presente alle nuove generazioni. Tramonta così il comunismo portandosi dietro la sua vasta e varia costellazione di entità politiche, economiche e ideali che ne avevano fatto la storia per cento e passa anni.

Il femminismo che conosciamo oggi come femminismo radicale, nasce negli anni Sessanta insieme ad altri movimenti giovanili rivoluzionari. Nasce, come noto, in posizione di rottura rispetto a questi, senza collocarsi né a destra né a sinistra, né sopra né sotto. Altrove. Per capirlo, basta leggere Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Che fa capire anche un’altra cosa e cioè che il paesaggio politico allora era molto diverso da ora. Voglio dire che il tramonto del comunismo ha privato il femminismo radicale di un tratto non dico unificante ma collegante con il suo più grande intorno storico e culturale. Un altrove non è un’alterità assoluta, ha dei termini di confronto. Con il tramonto della costellazione comunista alcuni di questi termini sono spariti. L’espressione stessa di “pratica politica”, che una come me continua a usare parlando di relazioni e di fiducia nei rapporti donna con donna, questa espressione proviene da allora e aveva una pregnanza semantica che prendeva anche da un contesto che non c’è più. Il femminismo ha attraversato non dico indenne ma vivo il 1989 perché non era solidale dei progetti rivoluzionari o riformatori, tutti d’impronta maschile. Li ha infatti criticati dalla prima ora, come sa chi ha letto Il maschile come valore dominante, del gruppo Demau, apparso nel 1969, documento inaugurale e al tempo stesso maturo del femminismo italiano. Il femminismo radicale ha attraversato anche altri tentativi di obliterazione (la parola è rara, mi scuso, ma non ce n’è una migliore), per arrivare fino a noi.

Ora, secondo la mia ipotesi, il passaggio non poteva farsi senza un giro di boa, in altre parole, senza portarsi fino alla cultura egemone per aggirarla. Che non vuol dire negarla, al contrario, ma farci i conti. La formula dell’autostima di genere coniata per leggere l’esperienza di Teresa B., ci parla di questo movimento, di questo che potrebbe essere, dal punto di vista delle circostanze storiche e dello stato dei rapporti di forza, un necessario giro di boa. Ci parla anche di un prezzo pagato, perché il concetto di genere, nato in una fase d’inserimento del pensiero femminista nella cultura accademica, si è diffuso oltre misura come un surrogato della differenza sessuale, e come tale si presta alla obliterazione del pensiero politico femminista.

Tuttavia, la formula si è presentata in un contesto che ne fa riconoscere il significato più profondo e la rende accettabile anche da una come me che discende direttamente dal femminismo radicale degli inizi. È come la principessa malvestita di cui raccontano le fiabe, che, salva grazie al travestimento, resta tuttavia riconoscibile.

Per me è molto positivo costatare come il potente dispositivo dell’obliterazione venga talvolta sconfitto. Dunque, si può sconfiggerlo. A questo risultato ha contribuito, bisogna dirlo, che, nel paesaggio mutato dal terremoto del 1989, in Italia ma non soltanto, anche in altri paesi europei e sicuramente anche negli Usa (sebbene gli elementi probanti siano frammentari in quest’ultimo caso), il femminismo radicale delle origini non è mai venuto meno. C’è di mezzo una continuità. Non mi riferisco soltanto alla memoria: non è venuto meno nelle esistenze di persone in carne e ossa, alcune sempre più vecchie e man mano altre, più giovani, e nelle loro usanze (le pratiche!), discorsi, scritti, luoghi, iniziative e progetti.

Per concludere e restare al nostro esempio: tra la riflessione delle due giornaliste del Corriere e il testo del 1983, “Più donne che uomini”, c’è un rapporto asimmetrico ma reciproco: l’autostima di genere traduce e conferma il Sottosopra, mentre questo dà a quella uno sfondo illuminante.

 

(Luisa Muraro, www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2014)

 http://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/sottosopra-verde-piu-donne-che-uomini-gennaio-1983/

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